L’articolo sarà pubblicato in «Occidentale», aprile 2012.
Oramai esaurita e introvabile in libreria, è stata recentemente ristampata la seconda edizione (1996) di Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), opera tra le più importanti dell’insigne storico Emilio Gentile (Il Mulino, pp. 512, € 16). Si tratta di uno dei capisaldi della moderna storiografia sulla dottrina fascista, «catturata» nel momento della sua nascita e del suo evolversi sino alla svolta del 1925, allorché il governo di Mussolini si fece regime e il pensiero fascista entrò nella sua fase matura, ancorché tutt’altro che concluso e cristallizzato, come si addice, del resto, a ogni moto spirituale e culturale schiettamente rivoluzionario, il quale non è mai stasi, ma è movimento, avanzata. Che non è mai contemplazione del passato e appagamento nelle mete raggiunte, bensì sguardo audace e proiezione entusiastica verso l’avvenire. Un avvenire che, com’è noto, è sempre incerto e, quindi, sommamente e meravigliosamente intrigante. Un pensiero, insomma, che fu creato dall’ardente fuoco di innovatori e di avanguardisti, e non certo dalla mente fredda e calcolatrice del borghese in vestaglia e pantofole, sempre timoroso del domani e, pertanto, nemico di ogni vera e autentica rivoluzione.
Il libro – arricchito rispetto alla prima edizione (1975) di un saggio introduttivo intitolato «La modernità totalitaria» – è fondamentale almeno per due motivi. Innanzitutto perché illustra con rigore ed efficacia non comuni il fiume impetuoso degli ideali fascisti in tutti i suoi rivoli e i suoi affluenti. In secondo luogo perché, al tempo della sua prima pubblicazione, fu una delle prime opere che, sulla scia della «rivoluzione storiografica» defeliciana, contribuirono a far giustizia di tutte le viete e artificiose teorie sul fascismo sorte nel dopoguerra, semplicistiche e ultra-ideologizzate: in particolare quella marxista, che vedeva nel fascismo una rozza e brutale reazione al soldo dell’alta borghesia industriale; e quella liberale, che interpretava il «fenomeno fascista» come «male del secolo», scaturito dall’esperienza disumanizzante della Grande Guerra, e di conseguenza come un imprevisto e ingombrante ostacolo alle «magnifiche sorti e progressive» dell’umanità borghese e neo/post-illuminista.
Gentile al contrario, destrutturando queste vecchie a fallaci interpretazioni, ricostruisce il percorso aurorale dell’ideologia fascista grazie al ricorso sapiente e antipregiudiziale alle fonti primarie dell’epoca, analizzando le parole e gli scritti degli uomini e degli intellettuali che, direttamente o indirettamente, contribuirono all’edificazione della cultura fascista. A cominciare, ovviamente, da Benito Mussolini, ossia da quel Mussolini socialista che, venuto a contatto con l’opera di filosofi e pensatori quali Nietzsche, Stirner, Sorel e Pareto, operò una revisione «idealistica» e perciò volontaristica del socialismo, che rappresentò senz’altro il primo passo verso la sua futura «presa di coscienza» fascista.
Tra le innumerevoli componenti culturali del fascismo, ritroviamo poi quelle correnti ardentemente e causticamente rivoluzionarie che, oggi, costituiscono la piattaforma esistenziale e mitica del fascismo del terzo millennio. Mi riferisco, in particolare, alle origini futur-ardite, fiumane, sindacaliste e squadriste del movimento mussoliniano, latrici di uno stile di vita sostanziato di «avventura, eroismo e spirito di sacrificio»: tutto ciò ben rappresenta, del resto, l’essenza di quel «romanticismo fascista» descritto già all’inizio degli anni Sessanta da Paul Sérant. Radici nobili e rivoluzionarie, quindi, che le tartarughe frecciate di CasaPound – attraverso una riappropriazione volontaristica dell’origine fascista, depurata dalle scorie passatiste e conservatrici – hanno posto a pietra angolare della loro azione politica avanguardistica.
Ma non potremmo neanche tacere le correnti attualiste, relativiste e scettiche del fascismo, incarnate dai loro capiscuola Giovanni Gentile, Adriano Tilgher e Giuseppe Rensi. Maggiormente conosciuto il primo, è stato certamente un gran merito dell’Autore aver riscoperto gli ultimi due. Tilgher, ad esempio, immettendo il fascismo – con l’entusiastica adesione del Duce – nell’alveo delle grandi correnti filosofiche relativistiche, sanciva la distruzione, o quanto meno la messa al bando di ogni «metafisica» tirannica e limitante, riconducendo pertanto il movimento delle camicie nere al suo specifico volontarismo d’origine nietzscheana. Stesso discorso vale per Rensi, esponente di punta dello scetticismo moderno (ben diverso da quello «classico»), anche se talora il suo pensiero si carica di tonalità eccessivamente naturalistiche e pessimistiche, le quali però – a onor del vero – ben si sposavano con alcuni aspetti di derivazione machiavelliana propri della mentalità di Mussolini.
Ciò che emerge, in sostanza, dalla ricognizione di Emilio Gentile nel sostrato ideologico del fascismo, è la sua natura eminentemente rivoluzionaria e moderna. Ideologia anti-ideologica, alla quale riconosceva un ruolo puramente strumentale, «il fascismo riassumeva nel mito dello Stato e nell’attivismo come ideale di vita i caratteri essenziali della sua ideologia, che lo distinsero dalle altre ideologie politiche del nostro tempo». Primato della politica e dell’azione, mito della nazione e dello Stato, culto della giovinezza e dell’eroismo, proiezione tragica e carica di destino nell’avvenire più remoto: questi i fondamenti del fascismo che, tra l’altro, sanciscono la sua originalità e autonomia rispetto a qualsiasi altra ideologia. A partire innanzitutto dal nazionalismo borghese e ottocentesco, in barba a tutte le superate speculazioni sulla «cattura ideologica» del fascismo da parte del nazionalismo. Come evidenzia Emilio Gentile, infatti, «il fascismo affermò l’idea della nazione come mito, mentre per i nazionalisti la nazione era una realtà naturale, per i reazionari un principio tradizionalista indipendente dalla volontà degli individui, un passato che condiziona il presente e determina il futuro secondo percorsi immutabili». Ovvero, per dirla con Henri Lemaître, la cultura fascista «concepisce la nazione non essenzialmente come eredità di valori, ma piuttosto come un divenire di potenza».
Divenire di potenza, prospettiva millenaria, primavera di bellezza. Niente di più prossimo al trittico casapoundiano etica-epica-estetica, recentemente tradotto da Scianca in volontà di potenza, volontà di forma, volontà di destino. Come si può vedere, ripercorrere le origini dell’ideologia fascista significa anche fare chiarezza su sé stessi. Ma – e ciò è fondamentale – tale percorso non è assolutamente quello del gambero. L’origine, cioè, non è mai alle nostre spalle, è sempre a venire. La rivoluzione, in altri termini, riguarda sia il passato che il futuro. La rivoluzione è ovunque e in ogni momento, è sempre in atto.
Il libro – arricchito rispetto alla prima edizione (1975) di un saggio introduttivo intitolato «La modernità totalitaria» – è fondamentale almeno per due motivi. Innanzitutto perché illustra con rigore ed efficacia non comuni il fiume impetuoso degli ideali fascisti in tutti i suoi rivoli e i suoi affluenti. In secondo luogo perché, al tempo della sua prima pubblicazione, fu una delle prime opere che, sulla scia della «rivoluzione storiografica» defeliciana, contribuirono a far giustizia di tutte le viete e artificiose teorie sul fascismo sorte nel dopoguerra, semplicistiche e ultra-ideologizzate: in particolare quella marxista, che vedeva nel fascismo una rozza e brutale reazione al soldo dell’alta borghesia industriale; e quella liberale, che interpretava il «fenomeno fascista» come «male del secolo», scaturito dall’esperienza disumanizzante della Grande Guerra, e di conseguenza come un imprevisto e ingombrante ostacolo alle «magnifiche sorti e progressive» dell’umanità borghese e neo/post-illuminista.
Gentile al contrario, destrutturando queste vecchie a fallaci interpretazioni, ricostruisce il percorso aurorale dell’ideologia fascista grazie al ricorso sapiente e antipregiudiziale alle fonti primarie dell’epoca, analizzando le parole e gli scritti degli uomini e degli intellettuali che, direttamente o indirettamente, contribuirono all’edificazione della cultura fascista. A cominciare, ovviamente, da Benito Mussolini, ossia da quel Mussolini socialista che, venuto a contatto con l’opera di filosofi e pensatori quali Nietzsche, Stirner, Sorel e Pareto, operò una revisione «idealistica» e perciò volontaristica del socialismo, che rappresentò senz’altro il primo passo verso la sua futura «presa di coscienza» fascista.
Tra le innumerevoli componenti culturali del fascismo, ritroviamo poi quelle correnti ardentemente e causticamente rivoluzionarie che, oggi, costituiscono la piattaforma esistenziale e mitica del fascismo del terzo millennio. Mi riferisco, in particolare, alle origini futur-ardite, fiumane, sindacaliste e squadriste del movimento mussoliniano, latrici di uno stile di vita sostanziato di «avventura, eroismo e spirito di sacrificio»: tutto ciò ben rappresenta, del resto, l’essenza di quel «romanticismo fascista» descritto già all’inizio degli anni Sessanta da Paul Sérant. Radici nobili e rivoluzionarie, quindi, che le tartarughe frecciate di CasaPound – attraverso una riappropriazione volontaristica dell’origine fascista, depurata dalle scorie passatiste e conservatrici – hanno posto a pietra angolare della loro azione politica avanguardistica.
Ma non potremmo neanche tacere le correnti attualiste, relativiste e scettiche del fascismo, incarnate dai loro capiscuola Giovanni Gentile, Adriano Tilgher e Giuseppe Rensi. Maggiormente conosciuto il primo, è stato certamente un gran merito dell’Autore aver riscoperto gli ultimi due. Tilgher, ad esempio, immettendo il fascismo – con l’entusiastica adesione del Duce – nell’alveo delle grandi correnti filosofiche relativistiche, sanciva la distruzione, o quanto meno la messa al bando di ogni «metafisica» tirannica e limitante, riconducendo pertanto il movimento delle camicie nere al suo specifico volontarismo d’origine nietzscheana. Stesso discorso vale per Rensi, esponente di punta dello scetticismo moderno (ben diverso da quello «classico»), anche se talora il suo pensiero si carica di tonalità eccessivamente naturalistiche e pessimistiche, le quali però – a onor del vero – ben si sposavano con alcuni aspetti di derivazione machiavelliana propri della mentalità di Mussolini.
Ciò che emerge, in sostanza, dalla ricognizione di Emilio Gentile nel sostrato ideologico del fascismo, è la sua natura eminentemente rivoluzionaria e moderna. Ideologia anti-ideologica, alla quale riconosceva un ruolo puramente strumentale, «il fascismo riassumeva nel mito dello Stato e nell’attivismo come ideale di vita i caratteri essenziali della sua ideologia, che lo distinsero dalle altre ideologie politiche del nostro tempo». Primato della politica e dell’azione, mito della nazione e dello Stato, culto della giovinezza e dell’eroismo, proiezione tragica e carica di destino nell’avvenire più remoto: questi i fondamenti del fascismo che, tra l’altro, sanciscono la sua originalità e autonomia rispetto a qualsiasi altra ideologia. A partire innanzitutto dal nazionalismo borghese e ottocentesco, in barba a tutte le superate speculazioni sulla «cattura ideologica» del fascismo da parte del nazionalismo. Come evidenzia Emilio Gentile, infatti, «il fascismo affermò l’idea della nazione come mito, mentre per i nazionalisti la nazione era una realtà naturale, per i reazionari un principio tradizionalista indipendente dalla volontà degli individui, un passato che condiziona il presente e determina il futuro secondo percorsi immutabili». Ovvero, per dirla con Henri Lemaître, la cultura fascista «concepisce la nazione non essenzialmente come eredità di valori, ma piuttosto come un divenire di potenza».
Divenire di potenza, prospettiva millenaria, primavera di bellezza. Niente di più prossimo al trittico casapoundiano etica-epica-estetica, recentemente tradotto da Scianca in volontà di potenza, volontà di forma, volontà di destino. Come si può vedere, ripercorrere le origini dell’ideologia fascista significa anche fare chiarezza su sé stessi. Ma – e ciò è fondamentale – tale percorso non è assolutamente quello del gambero. L’origine, cioè, non è mai alle nostre spalle, è sempre a venire. La rivoluzione, in altri termini, riguarda sia il passato che il futuro. La rivoluzione è ovunque e in ogni momento, è sempre in atto.
Nessun commento:
Posta un commento