giovedì 2 febbraio 2012

Processo alla borghesia: causa ancora pendente...

L’articolo sarà pubblicato in «Occidentale», febbraio 2012.  

«Il credo del borghese è l’egoismo, il credo del fascista è l’eroismo». Parola di Mussolini. Parole che squarciano l’ipocrisia, che affondano nel burro della budinosa prudenza borghesuccia che la Rivoluzione fascista intendeva debellare dalla nuova Italia imperiale, risorta dal lavacro di sangue della Grande Guerra. L’Impero, d’altra parte, non è cosa per pantofolai e cacasotto. Il sangue contro l’oro: così cantava la gagliarda gioventù che entusiasticamente partiva volontaria per il fronte nel 1940. Si parte, si vince contro il nemico esterno, e poi si regolano i conti con gli «inglesi di casa nostra», cioè i borghesi, gli imboscati, i profittatori e i ruffiani della Rivoluzione. Così pensavano fiduciosi i nostri Ricci, Giani, Pallotta. Com’è arcinoto, le cose andarono diversamente. Ma il messaggio degli «eroi di Mussolini» non fu vano. Ce lo dimostra bene Processo alla borghesia, raccolta dei contributi della migliore élite intellettuale educata dal Regime. Un volume curato da Edgardo Sulis che, allorché fu pubblicato nel 1939, andò letteralmente a ruba, divorato dai giovani fascisti impegnati nella «bonifica integrale» voluta da Mussolini. Bonifica di ogni vigliaccheria, diserzione e profitto personale a danno della comunità.

È per questo che va tributata massima lode alla casa editrice Settimo Sigillo che ha recentemente ripubblicato il bestseller degli anni Trenta (pp. 117, € 15). Oltre alla preziosa introduzione di Luca Leonello Rimbotti, vengono riproposti inalterati i brevi saggi dei collaboratori dell’opera. Allora conosciamolo il fior fiore della giovane cultura fascista: Edgardo Sulis, Berto Ricci, Icilio Petrone, Roberto Pavese, Diano Brocchi, Alberto Luchini, Gianni Calza, Omero Valle, Gino Barbero e Federico Forni. Si tratta di un «processo» in piena regola, con tanto di «identificazione dell’imputato» (la borghesia, naturalmente), di presentazione delle prove e di «verdetto» finale (condanna, manco a dirlo).

Profilo dell’imputata: «figlia di Lutero e della Rivoluzione francese che accolse e soddisfece i suoi 95 desideri di comodità ideale e di peccato legittimo; nata in casa dell’economia lo stesso giorno in cui fu proclamata l’indipendenza economica; battezzata nel 1789 col sangue di un privilegio scaduto dal quale nacque un privilegio ben più tenace, non responsabile, comodissimo; senza patria; sposata in tenerissima età al denaro, senza figli; abitante in casa della proprietà privatissima o in casa del desiderio di proprietà come fine; connotati indefinibili; segni particolari nessuno; professioni: 1) antiaristocrazia; 2) costituzionalismo; 3) economismo; 4) antipopolo; 5) classismo; 6) intellettualismo». Si divertivano i giovani fascisti, altro che! Si divertivano a provocare gli imboscati, gli egoisti, gli irresponsabili, i padreterni della diserzione eretta a indegno stile di vita.

Ma Processo alla borghesia non è certo un progetto estemporaneo o una mera distrazione goliardica, come potrebbe insinuare il solito scureggione antifascista dalla lingua lunga e biforcuta. Nient’affatto. Il libro è invece una serissima disamina del «mal borghese» vivisezionato e analizzato in tutti i suoi inquietanti aspetti. È un progetto di fondamentale importanza che aveva, tra l’altro, l’appoggio di uno sponsor di grido. Leggiamo infatti in una piccola nota al contributo di Sulis che apre l’opera: «In omaggio a un lettore del manoscritto sono state stampate in corsivo le frasi da lui sottolineate». Il «lettore» è, ovviamente, Benito Mussolini. Il volume acquista così, com’è evidente, una notevole valenza dottrinaria e ufficiale.      

Le argomentazioni di Sulis e camerati, del resto, risultano ancora oggi di una sconcertante attualità. Proprio nel momento in cui la borghesia celebra il suo trionfo, non sarà quindi male ritornare alle cause che la fecero nascere. Cause da rintracciare, innanzitutto, nella sconfitta (meritata!) delle oligarchie feudali dell’Ancien Régime, oramai inadatte a ricoprire quel ruolo di comando che detenevano da tempi immemori. Ma – come nota Sulis avallato dal Duce – l’«intento della rivoluzione borghese dell’89 è naturalmente di sostituirsi alla debole aristocrazia la quale per essere scesa nella trincea della classe si oppone oramai al popolo. Il desiderio è di spartirsi gli enormi patrimoni aristocratici veramente degni di conquista se da mezzi quali erano, si rivelavano i fini della classe dirigente. Ma infine lo scopo, il vero scopo era di rovesciare l’incomodo e pericoloso principio della responsabilità del comando. Affermo che la grande invenzione della borghesia è il comando senza responsabilità, quella responsabilità ch’è l’anima della aristocrazia e gli costò la testa. Tale invenzione si chiama costituzione» (p. 10). Al contrario, la Rivoluzione fascista (rivoluzione eroica) intendeva formare una nuova «aristocrazia del comando» nuovamente responsabile «di fronte al popolo, il quale non è mai classe», quel popolo che – come scrive Berto Ricci – non è «né imitazione borghese né retrograda plebe, ma milizia e lavoro» (pp. 23-24). Borghesia, quindi, detentrice dei privilegi, ma anonima e assente nei suoi doveri, e nemica del popolo di cui illegittimamente si professa rappresentante. 

Ma la battaglia antiborghese dei giovani mussoliniani va ben oltre la polemica puramente verbale, e si trasforma invece in analisi economica e sociale. E, infatti, vengono attaccati frontalmente i baluardi della borghesia, ossia la proprietà privata (non «in sé» ma «per sé») e l’istituzione stessa del salario: «Il concetto medesimo del salario – scrive sempre Ricci – è borghese, perché riduce al minimo qualsiasi reale partecipare del lavoratore a una produzione che si traduce per l’economia di lui in un tanto fisso. Il salario è il lavoro-merce» (p. 25). Viceversa, il lavoro per i fascisti non doveva più essere merce, ossia oggetto dell’economia, ma – come ci ricorda Gino Barbero – «dovere sociale» e «soggetto dell’economia» (p. 97).

Attenzione, però! La borghesia vuol sì essere classe e casta, eppure non bisogna assolutamente scambiar lucciole per lanterne. C’è differenza tra la borghesia e il «ceto medio», come ben ci rammenta l’«universalista» Roberto Pavese: se il borghese, infatti, è «un evirato dello spirito, un bruto intelligente, anzi più furbo che intelligente», al contrario «il coraggio, il volontarismo, dall’epopea garibaldina alla grande guerra, sono del ceto medio, non della borghesia, che è la classe degli imboscati della guerra e della pace» (p. 42). Il borghese, in sostanza, non è in tanto borghese in quanto possiede una specifica posiziona sociale o un determinato conto in banca, ma in quanto vive di uno spirito che è egoistico, vile e reattivo. Può esser borghese, cioè, anche un operaio che non ha altro obiettivo nella vita che quello di diventar borghese, così come non è borghese il farmacista che, in camicia nera nella sua squadra d’azione, cade nell’agguato di una banda di socialisti. È una questione di spirito, dunque: come giustamente evidenzia Icilio Petrone, si tratta di quello «spirito carrieristico, agnostico, materialistico che caratterizza l’indifferenza, il comodo, l’elefantiasi della borghesia» (p. 35). Borghesia, quindi, come malattia mentale, come paralisi dell’anima.

E, purtroppo, questa mentalità borghese finisce per infettare tutta la comunità nazionale. Una mentalità, innanzitutto, che si basa sul valore assoluto della ricchezza, la quale non è più l’effetto del potere (potere comunque «responsabile») bensì la garanzia del potere (stavolta, però, potere irresponsabile e anonimo). Si tratta, secondo le caustiche parole di Ricci, di quell’«idolo antieroico e antifascista della ricchezza vertice dei valori» (p. 26). Per Gianni Calza, più in particolare, «bisogna invece arrivare alla demolizione del concetto stesso di ricchezza-potenza e fondare sulla gerarchia del lavoro il nuovo ordine sociale» (p. 79). Non che i fascisti – beninteso! – lanciassero improbabili anatemi sul denaro in sé, vagheggiando bucolici e pauperistici paradisi terrestri. Ma la differenza tra il fascista e il borghese sta nel valore, appunto, che si dà alla ricchezza: per il fascista è un mezzo per ottenere qualcos’altro (per esempio la potenza della nazione), per il borghese invece è il fine supremo dell’esistenza. Per dirla con Omero Valle, «il borghese serve il denaro, il non borghese se ne serve» (p. 94).

Come si può vedere, i temi sollevati dai fascisti rivoluzionari e antiborghesi sono ancora di scottante attualità. Il «processo» va indubbiamente ripreso, per evitare che i reati della rapace borghesia, la quale ha affamato popoli e nazioni per secoli, non cadano in prescrizione. Ma la battaglia deve cominciare alla radice stessa del problema: da noi. Scrive Berto: «L’antiborghesia fascista deve, soprattutto, non essere solo polemica. Dev’essere costruzione, educazione. Il borghese non esiste soltanto allo stato puro. Il borghese è in noi, in ciascuno di noi, con le sue rinunzie e le sue ambizioni, il suo sottilizzare e dubitare, il suo particolarismo d’individuo, di famiglia, di ceto, la sua brama di ricchezza, la sua – specialmente – paura della povertà; la sua paura del coraggio; il suo basto d’abitudini; la sua doccia tiepida d’accomodamenti; la sua estraneità dalla vita fisica e da quel tanto di natura che ci vuole all’uomo civile perché la civiltà non si deformi nella più gretta barbarie. La lotta antiborghese è dunque, nel suo significato più alto, tirocinio crudo di tutti noi, uno per uno, perché solo un’umanità fascista nella quale nessuno cerchi scuse e nessuno ne trovi, tutti accettino compiti e tutti ne ricevano, potrà riconoscere la supremazia dello spirito, detronizzare la ricchezza dalla vita» (pp. 28-29). Il primo nemico sei tu, siamo noi. È sempre e solo l’eterna battaglia tra l’egoismo più bieco e l’eroismo che crea e feconda la civiltà. Civiltà del lavoro, s’intende…    

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